Quest’oggi ciò che voglio proporvi nel mio primo articolo, è una sorta di informale rubrica dove andremo a prendere in esaminazione opere d’intrattenimento a dir poco sconosciute, ma dall’altissima qualità e valore, almeno secondo il mio punto di vista.
Quel genere di opere in cui tutti noi incappiamo almeno una volta nella vita.
Quel genere di opera che fa nascere in noi il desiderio di gridare al mondo la nostra scoperta, e decantere le immense doti di ciò che ci ha catturato così profondamente. Da questo mio personale desiderio, nasce questo articolo dalle basse pretese, che tende a rivolgersi a un pubblico che alle volte è talmente esigente dal perdere malleabilità, tralasciando così quei piccoli capolavori che ogni tanto sbucano qua e la.
Ed è per queste ragioni che voglio parlarvi di questo prodotto in maniera quanto più personale possibile, partendo non da un’esaminazione del soggetto (alla quale comunque arriveremo) ma da un’esperienza.
Quest’oggi prenderemo in esaminazione un prodotto videoludico di un brand decisamente noto tra gli appassionati del genere JRPG ma che fece passare in sordina questo discusso quinto capitolo.
Stiamo parlando di Breath of Fire V: Dragon quarter.
Sapete qual’è il momento peggiore della vita di un gamer? quello che segna il passaggio dall’infanzia all’adolescenza e infine vecchiaia della propria vita videoludica, quel momento in cui smetti di meravigliarti di un gioco con gli occhi di un’infante, quando il profumo di un gioco perde mordente rispetto al passato, e tutta la magia che prima si racchiudeva nel cd si tramuta in un disperato desiderio di passare due o tre ore di accettabile intrattenimento.
A questo punto i più burberi si staranno già lamentando di come la propria vita da gamer sia piena e strabordante di emozioni, ma indipendentemente da questo, credo che ognuno di noi è incapace di negare che la magia di tenere un joystick in mano a sette anni è qualcosa che non riusciremo mai a sostituire.
Io mi trovai per pure caso in uno di questi fatidici momenti.
Dopo aver vissuto mille avventure attraverso un meraviglioso quanto criticato Final Fantasy XII, pensai che la PS2 mi avesse dato ormai tutto ciò di cui avevo bisogno, e pertanto evitavo persino di cercare giochi.
Così non è ben chiaro nemmeno a me secondo quali meccaniche mi ritrovai questo fantomatico Breath of fire V in casa.
Questo gioco conteneva un genere di salsa che nella mia infanzia avrei amato, ma che allora mi irritò largamente.
Un sistema di combattimento relativamente complesso, un’elevata difficoltà, una grafica mediocre, personaggi dal basso mordente visivo e una storia che apparentemente non aveva molto da offrire.
E in effetti non fu certo amore a prima vista il nostro, insultai pesantemente il gioco, lo denigrai e non lo toccai per molto, arrivando infine a lasciarlo a marcire nel dimenticatoio.
Quando infine mi decisi a riprenderlo in mano, fui quasi estasiato da quanto avevo di fronte, e arrivai a finire il gioco in non più di pochi giorni, per poi continuare ancora e ancora.
Ma esaminiamo con calma ciò di cui stiamo parlando.
Abbiamo di fronte un JRPG “trasgressivo” quel genere di JRPG come Valkyrie Profile o Star Ocean, che pur mantenendo le caratteristiche madre del genere se ne distaccano raggiungendo chiavi più improntate ad altri tipi di esperienza.
Ci troviamo quindi un sistema di combattimento diviso in due fasi:lo studio dell’area in cui capiteremo e la battaglia vera e propria.
Il gioco ci permetterà di manipolare il combattimento prima del proprio effettivo svolgimento utilizzando un sistema di trappole battezzato come PET.
Grazie ad esso potremo lanciare trappole ed esche di varia entità con effetti funzionali al giocatore e talvolta anche ai nemici.
Una volta effettuata questa operazione meramente opzionale, si procede all’approccio coi nemici (spesso in gruppo) e al combattimento vero e proprio.
Ogni singola azione da noi effettuata mangerà dei punti su una barra siglata come AP, ciò comprende dall’attacco al movimento stesso (si, ogni nostro passo sprecherà una determinata quantità di AP) e una volta terminata tale barra, non ci sarà più possibile effettuare mosse e dovremo cedere il turno.
Niente di rivoluzionario dunque per quanto si discosti dai precedenti capitoli, un sistema già visto in altri giochi come il sopracitato Valkyrie Profile (il secondo capitolo più nello specifico) con la sola particolarità che gli scontri saranno una vera e propria piaga dall’immensa difficoltà per i neofiti.
Finire tutto il gioco in una sola volta è pressocché impossibile per chi si approccia per la prima volta a questo capitolo.
Se a questo punto vi state chiedendo cosa io intendessi con “in una sola volta” sappiate che è in questa frase che risiede l’elemento più controverso di questo titolo.
Per finire questo gioco infatti dovrete ricominciarlo più di una volta, attraverso ciò che viene definito dal gioco come Scenario Overlay, siglato come SOL.
Permettetemi di spiegarmi meglio.
Il giocatore ha la possibilità di finire il gioco tutto d’un fiato, ma la cosa è pressoché impossibile.
Ad ogni battaglia vinta saranno concessi al giocatore dei punti esperienza extra, chiamati “XP del clan”, questi punti a differenza della normale esperienza, potranno essere distribuiti tra i tre protagonisti a proprio piacimento.
Se doveste malauguratamente perdere, vi ritroverete con i vostri soldi dimezzati e i suddetti XP persi per sempre, così come il vostro inventario sostituito da pochi oggetti atti a ritardare l’inevitabile.
Vi sarà possibile arrendervi e tornare al precedente punto di salvataggio, solo per ottenere il medesimo risultato ma con degli handicap, oppure, vi sarà proposto di ricominciare il gioco da zero.
Per quale ragione dovreste ricominciare il gioco? è qui che lo scenario overlay mostra i propri attributi, infatti, ricominciando più volte il gioco sarà possibile sbloccare nuovi filmati e trovare cambiamenti nei vari dungeon affrontati come scrigni o nemici, ma soprattutto, vi sarà possibile utilizzare gli XP del clan della partita precedente, i vostri soldi della partita precedente e gli oggetti della partita precedente, a patto che essi siano stati accuratamente riposti nell’arsenale (una sorta di banca degli oggetti con slot limitati, MOLTO limitati).
E sapete qual’è la cosa strana cari lettori? che il ricominciare il gioco è la cosa meno fastidiosa che può accadervi, questo grazie alla relativamente corta durata del gioco e alla sua immensa fluidità.
Vero è che l’elevata difficoltà può farvi strappare i capelli, ma dedicandogli un paio di partite il gioco diverrà incredibilmente scorrevole, senza cadere nel semplice o nel banale.
Va detto per amor di correttezza che bisogna sempre stare attenti al contatore-D, un contatore che salirà di una tacca ogni tot passi o ogni volta che utilizzerete i vostri poteri di drago (elemento ricorrente nella saga), e che se portato al 100% porterà al game over costringendovi a ricominciare dall’inizio, ma con una saggia gestione dei vostri poteri sarà facile sopravvivere anche a questo ostacolo.
Ma dove risiede allora tutta la fantomatica magia di questo gioco?
Signori miei, forse sarò banale, ma a fare da regina a questo gioco, è senza dubbio la trama e l’immensa emozione con la quale è capace di giostrare i sentimenti del giocatore più scrupoloso.
Credetemi, non ha colpi di scena strappa lacrime come può averne Final Fantasy X, ne ha colpi di scena inaspettati come Valkyrie Profile 2, in tutta sincerità non ha davvero colpi di scena particolarmente scioccanti.
Eppure…l’estrema delicatezza con la quale viene trattato il tutto, unita alla forte poesia della trama, riescono a creare un mix che pochi possono apprezzare.
Permettetemi di illustrarvi a grandi linee come si evolve la trama base del gioco.
L’umanità si trova ormai da secoli rinchiusa a centinaia di metri sotto terra, in questo mondo ogni umano viene dalla nascita categorizzato con un numero cifrato che ne identifica le capacità latenti e che entra a far parte del proprio nome, più è basso il numero, più è forte la persona in questione per intenderci.
Così ci ritroviamo nei panni del protagonista, Ryu 1/8192, questo è il suo nome. Egli è un giovane grunt, il gradino più basso di un’organizzazione chiamata “ranger” che può essere identificata come la polizia ai giorni nostri.
Egli è probabilmente il primo e unico ad entrare nei Ranger con un criterio-d così basso, e a detta di molti non potrà andare molto lontano, a differenza invece del collega e amico Bosch 1/64, figlio di una delle più importanti figure all’interno del mondo di Breath of Fire, destinato per via del suo criterio a compiere grandi cose.
Dopo un’incidente provocato da un’organizzazione ribelle terroristica, Ryu risulta disperso in zone oscure del mondo sotterraneo, e sarà qui che Ryu, a centinaia di metri sotto il livello del suolo, incontrerà e salverà Nina, una bambina con le ali.
Questa è la trama di base.
Non mi permetto di dire altro, sarebbe criminale.
Quello che vi ho presentato non è un gioco per tutti, poco ma sicuro, è un genere di gioco che può essere apprezzato al meglio solo chi ha sufficiente empatia da capire ciò che va dietro i dialoghi, e che ha sufficiente cuore per affezionarsi a una storia che si allontana molto dai canoni moderni di ciò che chiamiamo comunemente “una bella storia”.
Non è complicata, non è nemmeno troppo elaborata, eppure è sorprendente, è sorprendente come un gioco così relativamente povero sia in grado di donare così tante emozioni.
Si tratta di quel tipo di storie che indipendentemente dalla tua età puoi assaporare, e ogni volta avrà un aspetto diverso.
Questo gioco lo consiglio prettamente a coloro che sono stufi dei soliti titoli tripla A da mille mila euro con poche ore di gioco insoddisfacente, con pochi euro potete portarvi a casa ore e ore di emozioni e dedizione, una sottile chiave per riaprire quel cassetto che apriste quando da bambine prendeste tra le mani il vostro primo gioco.